Il Fondo di ristoro di BPVi, Veneto Banca, Banca Marche, Banca Popolare dell?Etruria, CaRiFe e CaRiChieti. Osservazioni “personali” di Franza e Gasperini, membri Consob

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L’esistenza di una pluralità di sistemi di indennizzo suscita, in chi si accinga a studiare la materia, quantomeno un problema e, soprattutto, un interrogativo. Il problema attiene alla – comprensibile – difficoltà di districarsi all’interno di un composito (se non, direttamente, complicato) insieme di interventi legislativi; l’interrogativo dice relazione all’an ed al quomodo dell’intervento pubblico in ambito creditizio. Entrambi i profili meritano di essere trattati ed a tanto si procederà nell’ordine prospettato. Così, ad una – seppur breve – ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono i richiamati Fondi e delle loro specifiche caratteristiche (e degli altri istituti di indennizzo vigenti) seguirà il tentativo di indagare – e, se possibile, spiegare – le ragioni che hanno spinto il legislatore ad intervenire nella materia de qua. E ciò, si badi, senza la pretesa di voler fornire alcuna soluzione definitiva ma, piuttosto, con l’auspicio di dar avvio ad una riflessione problematizzante delle questioni che si tratteranno.

1. La vicenda dell’indennizzo a favore dei “risparmiatori/investitori” di Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti e delle c.d. Banche Venete (Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca)

1.I. Seguendo l’ordine prospettato, si prenderanno le mosse dall’analisi del Fondo di solidarietà e di quello di ristoro finanziario, rispettivamente istituiti ad opera della L. 28 dicembre 2015, n. 208,recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)” e dalla legge 27 dicembre 2017, n. 205, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”. Il primo dato da cui partire è, come noto, il decreto c.d. “salva banche” (D.L. 23 novembre 2015, n. 183, recante “Disposizioni urgenti per il settore creditizio”) con cui il Governo ha, tra l’altro, anticipato l’applicazione della nuova disciplina comunitaria delle crisi bancarie (in vigore dal 1 gennaio 2016), tentando di evitare l’applicazione del meccanismo del bail in, ma soprattutto – ai fini che in questa sede interessano – ha dato avvio al processo di ristrutturazione di Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti nonché all’attivazione del fondo risoluzione. Con la successiva L. 208/2015, il legislatore ha posto parziale rimedio alla carenza di tutela dei risparmiatori delle banche dichiarate in dissesto. Allo scopo, ha istituito il “Fondo di solidarietà” a favore degli investitori – persone fisiche, imprenditori individuali, imprenditori agricoli o coltivatori diretti – che, alla data di entrata in vigore del D.L. 22 novembre 2015, n. 183, detenevano strumenti finanziari subordinati emessi dalle Banche dell’Italia centrale (art. 1, co. 855).

Il Fondo è alimentato, sulla base delle esigenze finanziarie connesse alla corresponsione delle prestazioni, nonché gestito, dal Fondo interbancario di tutela dei depositi di cui all’art. 96 T.U.B. (Fondo noto anche con l’acronimo “FIDT”; cfr. art. 1, co. 856 e 860, legge di stabilità 2016)[1]. Ad integrare la disciplina ora esposta è, poi, intervenuto il D.L. 3 maggio 2016, n. 59, recante “Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e individuali, nonché a favore degli investitori in banche in risoluzione”, conv. modif. dalla L. 30 giugno 2016, n. 119. Nel fornire la nozione di “investitore”, la legge del 2016 ha anzitutto ampliato la platea di coloro che possono beneficiare del Fondo[2]. Si tratta dei successori mortis causa dei soggetti già annoverati dall’art. 1, co. 855, l. 208/2015, nonché il coniuge, il convivente more uxorio ed i parenti entro il secondo grado dell’investitore qualora, a seguito di trasferimento per atto tra vivi, si trovino a possedere strumenti finanziari rilevanti ai sensi e per gli effetti della richiamata normativa (art. 8, co. 1, lett. a, L. 119/2016). Il legislatore ha inoltre precisato che deve trattarsi di strumenti finanziari subordinati acquisiti entro il 12 giugno 2014 (oltre che, ma si è già visto, detenuti alla data della risoluzione delle Banche) e, di più, acquistati”nell’ambito di un rapporto negoziale diretto con la Banca in liquidazione che li ha emessi” (artt. 8, co. 1, lett. a) e 9, co. 1, L. 119/2016). Ancora, la L. 119/2016 ha previsto che possano domandare l’indennizzo i risparmiatori che vantino uno dei due requisiti: il primo, di tipo reddituale; il secondo, patrimoniale[3]. Circa il quantum della somma conseguibile, si tratta di un indennizzo forfetario, pari all’80 % del corrispettivo pagato per l’acquisto degli strumenti finanziari al netto degli oneri e delle spese connesse all’operazione di acquisto nonché della differenza positiva tra il rendimento degli strumenti finanziari subordinati ed il rendimento di mercato individuato secondo specifici parametri (cfr., art. 9, L. 119/2016).

L’adesione al Fondo e, di conseguenza, la richiesta di indennizzo forfettario, si pongono come alternative rispetto al ricorso alla procedura arbitrale, prevista e disciplinata dalla sopra richiamata legge di stabilità 2016 (cfr., in particolare, art. 1, co. 857-860)[4]: l’attivazione della procedura arbitrale successiva alla richiesta di accesso al fondo deve essere dichiarata improcedibile (art. 9, co, 10, L. 119/2016). I risparmiatori che, invece, ritengano di poter utilmente dimostrare di essere stati danneggiati dalla violazione delle regole sul collocamento dei prodotti da parte delle banche, e dunque intendano conseguire il rimborso integrale delle somme investite (in ogni caso, al netto delle eccedenze di plusvalenza), potranno e/o dovranno dunque far istanza, ab origine, al Collegio arbitrale. Con la precisazione che, in questo caso, la corresponsione delle prestazioni è subordinata all’accertamento della responsabilità dell’intermediario per violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza previsti dal T.U.F. nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento relativi alla sottoscrizione o al collocamento degli strumenti finanziari subordinati (art. 1, co. 858, legge di stabilità 2016). Più chiaramente: il risparmiatore in possesso dei requisiti per accedere alla procedura diretta, dovrà scegliere se intraprendere la via del rimborso forfettario – e, tendenzialmente, automatico – oppure adire il Collegio, con i costi e i rischi – anche in punto di mancato accertamento della responsabilità dell’intermediario – che ciò comporta. La nomina degli arbitri, ovvero la definizione dei criteri per la loro identificazione, nonché la definizione delle regole di funzionamento e di supporto organizzativo del Collegio de quo sono state demandate ad un emanando decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; al Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con quello della Giustizia, è stata invece delegata la definizione delle modalità di gestione del Fondo; delle modalità e condizioni di accesso; dei criteri di quantificazione delle prestazioni conseguibili; delle procedure da seguire.

Il D.P.C.M. ha visto la luce il 28 aprile 2017 ed ha previsto che il Collegio sia composto da un Presidente, individuato nella persona del Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, e da due componenti, scelti dal Presidente del Consiglio e dal Ministro dell’Economia e delle Finanze tra persone di comprovata imparzialità, indipendenza, professionalità e onorabilità, nonché tra magistrati ordinari, amministrativi, contabili, avvocati dello Stato collocati in quiescenza non prima del 31.12.2013 (art. 3)[5]. Il secondo decreto, quello interministeriale, è stato adottato il successivo 9 maggio 2017. In primo luogo, ha stabilito che la pubblicazione, ad opera del Collegio, dell’offerta di determinazione arbitrale della prestazione, ha valore di offerta al pubblico. Alla presentazione del ricorso al Collegio da parte dell’investitore è stato specularmente riconosciuto valore di accettazione irrevocabile di tale offerta (cfr. art. 3, co. 3 e 7). Nel disciplinare il procedimento, è stato garantito che esso si svolga secondo il metodo del contradditorio tra le parti (cfr. art. 6). Per il caso in cui, all’esito del procedimento, venga accertata la violazione degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti dal T.U.F., la prestazione liquidata al ricorrente dovrà essere determinata in via equitativa dal Collegio (il decreto, all’art. 6, rinvia all’art. 2056 c.c.) ma non potrà superare la perdita subita dall’investitore, al netto degli oneri, delle spese e del differenziale tra il rendimento degli strumenti finanziari percepito dall’investitore e quello di mercato di un Buono del Tesoro poliennale in corso di emissione di durata finanziaria equivalente (oppure quello ricavato tramite interpolazione lineare di Buoni del Tesoro poliennali in corso di emissione aventi durata finanziaria più vicina).

Il sistema così delineato presentava (e presenta tuttora), però, un vuoto di tutela che non può essere taciuto. I due decreti cui si è fatto ora riferimento, che hanno consentito al Collegio arbitrale di iniziare ad operare, sono stati approvati a distanza di oltre un anno e mezzo dall’entrata in vigore del D.L. “salva banche”. In quell’arco temporale – invero non insignificante – gli investitori che, al 23 novembre 2015, detenevano strumenti finanziari subordinati nelle banche dell’Italia centrale sopra menzionate e che non hanno voluto e/o potuto ricorrere alla procedura semplificata di indennizzo forfettario sono rimasti privi della possibilità di ottenere il risarcimento.

Quanto ai risparmiatori/investitori delle Banche Venete, l’accesso al Fondo di Solidarietà è stato loro esteso con il successivo D.L. 25 giugno 2017, n. 99, recante “misure urgenti per assicurare la parità di trattamento dei creditori nel contesto di una ricapitalizzazione precauzionale nel settore creditizio nonché per la liquidazione coatta amministrativa di Banco Popolare di Vicenza S.p.A. e di Veneto Banca S.p.A.”, conv. con modif. dalla L. 31 luglio 2017, n. 121[6].

1.II. Venendo a trattare del Fondo di ristoro finanziario, si tratta di una dotazione finanziaria che, come anticipato, la L. 205/2017 ha inserito nello stato di previsione del Ministero dell’Economia e delle Finanze. A novellare la L. 205/2017 è, poi, intervenuto il D.L. 25 luglio 2018, n. 91 (cd. “decreto milleproroghe”, conv. con modif. dalla L. 21 settembre 2018, n. 108). Il sistema che ne risulta è volto a ristorare i risparmiatori delle banche poste in liquidazione o sottoposte a liquidazione coatta amministrativa che abbiano subito un danno ingiusto in ragione della violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza previsti dal T.U.F. nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento relativi alla sottoscrizione e al collocamento di strumenti finanziari. Il primo elemento cui preme prestare attenzione è la platea dei soggetti che possono accedere al “Fondo di ristoro”. Lo strumento di garanzia è stato infatti esteso sino a ricomprendervi coloro che abbiano effettuato investimenti in capitale di rischio[7]. Quanto al Fondo, è stato previsto che, per accedervi, debba sussistere un preventivo “riconoscimento” del danno sofferto dall’investitore/risparmiatore. In quest’ottica, viene dato valore di “riconoscimento” alle sentenze giurisdizionali, alle pronunce dell’Arbitro per le controversie finanziarie (ACF) o a quelle degli arbitri presso la camera arbitrale ANAC. Non solo, è stato altresì previsto un incremento pari a 25 milioni di euro del Fondo per la tutela stragiudiziale dei risparmiatori e degli investitori istituito dalla Consob presso il proprio bilancio, previsto dall’art. 32-ter.1, TUF (di cui meglio si dirà appresso, v. infra,par. 4). L’incremento de quo è posto a carico del Fondo di ristoro. Nelle more dell’emanazione del D.P.C.M. di attuazione delle norme in esame (il termine è fissato per il prossimo 31 gennaio 2019), i risparmiatori destinatari di pronuncia favorevole già adottata o che sarà adottata entro il 30 novembre 2018 dall’ACF, possono avanzare istanza alla CONSOB, secondo le modalità che questa ha stabilito, al fine di ottenere tempestivamente l’erogazione dell’importo liquidato[8].

La somma effettivamente conseguibile dall’investitore/risparmiatore sarà pari al 30 % della somma riconosciuta e, di più, non potrà eccedere i 100.000 Euro (cfr. art. 1, co. 1107, L. 205/2017). A ciò si aggiunga che dall’ammontare della misura di conforto è in ogni caso dedotta ogni eventuale diversa forma di risarcimento, indennizzo o ristoro di cui i risparmiatori abbiano già beneficiato.

2. La protezione del “risparmiatore/investitore”

Fornite, nei termini di cui sopra, le imprescindibili coordinate temporali e giuridiche dei due Fondi di più recente introduzione, è già possibile compiere alcune considerazioni circa l’operazione politica con cui Governo e Parlamento hanno inteso porre rimedio alle conseguenze dei ben noti default bancari[9].

L’elemento che, a parere di chi scrive, appare degno di maggior interesse attiene alle categorie di investitori/risparmiatori cui si riferiscono le norme e, in particolare, all’estensione di tutela che il legislatore ha operato quando – oltre ai portatori di strumenti finanziari subordinati (già contemplati dalla L. 208/2015) – ha ammesso anche i portatori di (semplici) strumenti finanziari ad accedere al Fondo di ristoro. Per comprendere appieno il ragionamento che si intende svolgere, giova richiamare – seppur brevemente – le caratteristiche dei titoli ora menzionati. In questo senso, sarà sufficiente ricordare che con la locuzione “strumenti finanziari subordinati” si fa riferimento a titoli che, in caso di liquidazione o fallimento dell’emittente, sono rimborsati dopo la soddisfazione dei creditori ordinari. Essi presentano, pertanto, un significativo rischio di rientro e, infatti, sono caratterizzati da un maggior rendimento. Pur appartenendo, quantomeno a livello formale, al genus dei titoli di debito, gli strumenti subordinati sono, de facto, assimilati ad investimenti in capitale di rischio (è noto che la loro emissione rappresenta spesso, per l’emittente, una valida alternativa al – più costoso – collocamento di azioni). La (più ampia) nozione di “strumento finanziario” fa invece riferimento ad ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato (e dunque al di là della forma che lo strumento, di volta in volta, assume), purché rappresentativo dell’uso finanziario del capitale, per tale intendendosi l’impiego del capitale effettuato a fronte dell’attesa di un rendimento[10]. Così, per tutti, le azioni: il tipico strumento con cui investire (direttamente) in capitale di rischio. In entrambi i casi si è dunque in presenza di investimenti “che hanno a che fare” con capitale di rischio, sebbene in modo diverso. Nel caso delle azioni, direttamente: qualora si verifichi una crisi, come nelle vicende che si vanno considerando, le partecipazioni dirette al capitale sono le prime ad essere erose. Nello specifico ambito bancario, quanto ora detto trova un’importante conferma all’art. 34, par. 1, lett. a), BRRD: tra i principi cui devono attenersi le autorità nazionali di risoluzione, si legge che “gli azionisti dell’ente soggetto a risoluzione sopportano per primi le perdite”. Nel caso di strumenti finanziari subordinati, il collegamento con il capitale di rischio è di tipo, invece, soltanto indiretto e, per di più, potenziale. Con buona pace della sostanziale assimilazione che, nella coscienza comune, di tali strumenti viene fatta al genus dei titoli di debito, è innegabile che nello schema dell’obbligazione subordinata ricorra comunque un elemento di rischio (che assume maggiore o minore intensità a seconda della particolare species di obbligazione subordinata di volta in volta considerata)[11]. A fronte di un simile – ed evidente – dato, non possono che colpire le previsioni di legge che istituiscono una garanzia di ritorno economico per gli investimenti non andati a buon fine. Quel che si intende dire è che le norme, pur frutto delle migliori intenzioni, istituiscono una serie di tutele per operazioni di investimento che, per loro stessa natura, rivestono invece carattere speculativo. Ciò che non può che apparire – quantomeno – contraddittorio. E, di più, potrebbe prestare il fianco ad operazioni di moral hazard[12]. È infatti evidente che la possibilità di recuperare, seppur in misura parziale, l’investimento effettuato influisce sulla stessa scelta di impegnare il capitale. L’esistenza di una garanzia di rientro potrebbe, infatti, invogliare ad eseguire operazioni (anche altamente) speculative.

Il rischio ora segnalato, seppur non meramente astratto, è tuttavia superato, nel caso di specie, da una serie di circostanze. La prima, e più evidente, deriva dalla stessa littera legis: l’efficacia delle norme sopra richiamate è limitata alle situazioni che le stesse sono chiamate a sanare. Tali previsioni rivestono, pertanto, carattere eccezionale e, di più, non possono e non potranno essere invocate per soddisfare eventuali pretese riparatorie da parte di soggetti convolti in vicende diverse da quelle più volte citate. La seconda considerazione, anch’essa evidente, è di tipo cronologico. Gli interventi del legislatore volti ad introdurre nuovi strumenti di indennizzo e ad allargare il novero dei risparmiatori/investitori che ne possono beneficiare, è successivo alle scelte di investimento e, soprattutto, al verificarsi delle situazioni di default degli intermediari. Si tratta, dunque, di misure essenzialmente remediali. L’istituzione delle garanzie di rientro non poteva, pertanto, rappresentare un elemento su cui alcun risparmiatore avrebbe potuto basare (o comunque orientare) la scelta in ordine all’impiego dei propri risparmi. Vi è, poi, un terzo elemento che attiene allo schema negoziale in cui si è, a suo tempo, inserito, l’acquisto della partecipazione sociale nelle note Banche da parte dell’investitore retail. Si è infatti trattato di operazioni c.d. “baciate”, in cui l’acquisto o la sottoscrizione della partecipazione è coincisa con l’erogazione di un finanziamento da parte della banca emittente. Circostanza, quest’ultima, che ha giustificato la sottoscrizione o il collocamento della partecipazione sociale. Ne deriva che il ristoro istituito ex lege non afferisce tanto al rapporto societario che normalmente lega l’investitore all’emittente (seppur bancario), essendo semmai volto a sanare l’anomalia del rapporto di investimento instauratosi con la banca, nelle vesti di intermediario[13].

Le considerazioni ora svolte concorrono tutte a scongiurare il rischio di cui si è detto: le vicende delle Banche venete e di quelle dell’Italia centrale hanno carattere eccezionale cosicché gli interventi “sananti” del legislatore sono limitati ad esse. Al contempo, però, tutte e tre si prestano ad essere lette anche da un altro punto di vista. Si è detto, nell’ordine, della limitazione testuale e cronologica dell’intervento politico di ristoro. E infatti, giova richiamarlo, per espressa previsione normativa, il ristoro è circoscritto ai risparmiatori/investitori che, alla data della messa in liquidazione o risoluzione degli istituti, detenevano strumenti finanziari emessi dalle banche de quibus entro il 12 giugno 2014. Se, però, si considera – come è irrevocabile in dubbio – che lo scopo del legislatore era quello di intervenire sugli investimenti fatti (rectius,indotti dagli intermediari in violazione delle regole di condotta) in costanza della crisi degli istituti bancari, sarebbe stato ragionevole attendersi l’indicazione anche di un dies a quo, di un momento cioè a partire dal quale l’investimento non avrebbe potuto, e dovuto, essere suggerito come “conveniente” dall’intermediario, dal momento che vi erano oggettivi segnali di allarme circa la redditività dell’operazione (e, di più, la stessa possibilità di rientro del capitale). Solo l’indicazione di due punti precisi (i richiamati dies a quo e ad quem), infatti, avrebbe consentito di tracciare il segmento temporale (tendenzialmente) coincidente con il manifestarsi della crisi degli istituti bancari e, per l’effetto, avrebbe fatto emergere quegli investimenti che – dichiaratamente – il legislatore intendeva ristorare. La legge, invece, si limita ad indicare un (doppio) termine finale e tace, invece, su quello iniziale. Rendendo, pertanto, astrattamente risarcibili anche investimenti “di lunga data” – in origine, magari, anche “fruttuosi” – e consentendo all’investitore, oggi insoddisfatto, la garanzia del ristoro.

Senza tacere, ma si tratta solo di un cenno, dei dubbi che la manovra politica sopra descritta fa sorgere con riferimento alla sorte di altri e diversi istituti – e, parallelamente, di altri e diversi risparmiatori/investitori – di cui è, ormai, noto lo stato di “difficoltà”/”dissesto” (si pensi, solo per citare un caso ormai all’attenzione delle cronache finanziarie, a Banco Popolare di Bari). Anche per costoro, e in particolare per quegli investimenti che si stanno perfezionandomedio tempore, si dovrà attendere (ciò che in ogni caso ci si auspica non accada, e cioè) l’ufficialità del default, il dilagare dell’insoddisfazione e i lunghi tempi del legislatore per approntare un rimedio?

Venendo, infine, a trattare delle peculiarità delle operazioni ristorate (o ristorabili), sopra si è richiamata la natura “baciata” dei complessivi schemi negoziali che hanno legato l’investitore alla banca. A ciò si aggiunga che, nelle vicende all’attenzione delle cronache finanziarie, le offerte degli intermediari bancari sono state realizzate nei confronti di una clientela di tipo, perlopiù, retail. Circostanza, quest’ultima, che ha comprensibilmente indotto il legislatore ad approntare le tutele che si sono dianzi esposte, ma che, da un altro punto di vista, induce a leggere l’intervento di legge come “interferenza” in un rapporto – quello tra intermediario e clientela retail – di tipo fiduciario. Quest’ultimo, se inteso per quel che è, pare essere stato – quantomeno – “sottovalutato” – se non direttamente obliterato – dal legislatore dell’ “emergenza”. L’elemento fiduciario, come è noto, non esime, ma anzi impone, per l’intermediario il rigoroso rispetto delle regole di comportamento di cui al T.U.F. (che, se violate, rendono doverosa la “sanzione”). Per converso, neppure legittima un completo affidamento del cliente, seppur retail (che, magari, senza opportuno discernimento e, forse, con leggerezza era convinto di poter continuare a “fare un affare”) nell’attività della Banca. A maggior ragione quando, come nel caso in esame, si tratti di investimenti altamente speculativi. Questo per dire che l’articolato impianto degli strumenti di rientro economico costruito ad hoc dal legislatore degli ultimi anni va chiaramente a vantaggio dell’investitore (prima fiducioso della propria banca, oggi invece insoddisfatto). Ed è ulteriormente rafforzato dalla tutela semplificata del ricorso all’ACF nonché, come si è detto, dall’attribuzione di un’efficacia particolarmente vincolante alle sue decisioni (e, infine, dal merito delle pronunce che, sovente, riconoscono la responsabilità dell’intermediario).

Il tutto, senza considerare che l’ordinamento interno già annoverava altri strumenti di tutela e indennizzo. Di questi ultimi, infatti, ci si accinge a trattare, onde consentire una costruzione, il più possibile, completa dei “pezzi” di questo composito “puzzle”.

3. Il Fondo nazionale di garanzia. Gli artt. 32-ter e 32-ter.1, T.U.F.

Prima dell’introduzione dei due Fondi di cui si è detto (v. supra, par. 1), l’ordinamento annoverava già un “sistema di indennizzo” a tutela degli investitori. Si tratta del Fondo nazionale di garanzia, istituito dall’art. 15, L. 2 gennaio 1991, n. 1.

Il Fondo è un ente di diritto privato con personalità giuridica autonoma e autonomia patrimoniale cui è stato riconosciuto valore di “sistema di indennizzo” ai sensi e per gli effetti dell’art. 59 T.U.F.[14]. L’intervento del Fondo nazionale di garanzia è subordinato a situazioni di crisi dell’intermediario: i.e. l’adozione di un provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, di una sentenza dichiarativa di fallimento o di una sentenza di omologazione del concordato preventivo. Tale istituto indennizza gli investitori per i crediti chirografari o derivanti dalla mancata restituzione integrale del denaro e degli strumenti finanziari o del loro controvalore che siano stati riconosciuti in via definitiva dagli organi della procedura concorsuale[15]. L’indennizzo è calcolato per ciascun investitore sulla base dell’importo complessivo dei crediti ammessi allo stato passivo, al netto di eventuali riparti parziali effettuati dagli organi della procedura concorsuale, fino ad un massimo complessivo di ventimila euro. Per ottenere l’indennizzo, gli investitori i cui crediti siano stati ammessi allo stato passivo devono presentare al Fondo nazionale di garanzia apposita istanza – opportunamente documentata – a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, entro i termini previsti dal regolamento operativo del Fondo. Quest’ultimo, sulla base delle istanze pervenute entro 190 giorni dalla data in cui è stato depositato e reso esecutivo lo stato passivo, procede all’accertamento delle proprie disponibilità finanziarie destinate a copertura degli interventi ed alla quantificazione degli impegni per il pagamento degli indennizzi relativi ai crediti ammessi allo stato passivo (sono inclusi i crediti ammessi con riserva o che siano oggetto di opposizione o di impugnazione).

Lo statuto del Fondo nazionale di garanzia dispone che la copertura finanziaria delle spese di funzionamento e degli interventi istituzionali siano – essenzialmente – a carico dei soggetti aderenti (artt. 3, co. 1, lett. a) nonché 18, 21 e 22 dello Statuto); sono contemplate anche le somme rinvenienti dall’esercizio del diritto di surroga del Fondo (art. 3, co. 1, lett. b) dello Statuto e 59, co. 4, T.U.F.), i proventi della gestione e l’investimento delle disponibilità liquide (art. 3, co. 1, lett. c) dello Statuto) e ogni altro provente di carattere ordinario e liquido (art. 3, co. 1, lett. d) dello Statuto). In particolare, il contributo annuale a copertura delle spese di funzionamento – costituito da una quota fissa uguale per tutti i soggetti aderenti – è fissato dall’Assemblea, su proposta del Comitato di gestione formulata in base al preventivo di spesadell’esercizio di riferimento (art. 18 dello Statuto che, sul punto, rinvia al Regolamento operativo). Il contributo relativo alla copertura finanziaria degli interventi istituzionali è, invece, calcolato applicando l’aliquota percentuale (deliberata dal Comitato di gestione in funzione dei mezzi necessari per gli interventi da effettuare) sugli aggregati della base contributiva individuale rappresentata dai proventi lordi che agli intermediari derivano dalla prestazione dei servizi e attività di investimento (art. 21 dello Statuto).La disciplina ora brevemente richiamata, alla prova degli scandali societari che agli inizi del nuovo millennio hanno scosso la fiducia del mercato e danneggiato soprattutto i risparmiatori più deboli (si pensi ai casi “Cirio” e “Parmalat”, nonché all’opacità dell’informazione bancaria negli investimenti ad alto rischio come è ad esempio avvenuto con la vicenda dei Bond argentini) ha reso necessario un ripensamento dell’istituto del Fondo di garanzia.I cases sopra citati hanno fatto emergere, con prepotenza, ed a livello generale, la necessità di una rilettura delle normative in punto di tutela del risparmio e di controllo dell’esercizio del credito. Nel primo senso, si è manifestata l’esigenza di istituire degli strumenti di garanzia ed indennizzo dei risparmiatori, nonché l’opportunità di prevedere apposite procedure di conciliazione e arbitrato per la decisione delle controversie tra risparmiatori e intermediari.

Questi i motivi per cui, con l’art. 27, comma 2, L. 28 dicembre 2005, n. 262, recante “disposizioni per la tutela del risparmio e disciplina dei mercati finanziari”, il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per l’istituzione di un fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori[16].

Il D. Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, recante “istituzione di conciliazione e arbitrato, sistema di indennizzo e fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori in attuazione dell’art. 27, commi 1 e 2, della legge 28 dicembre 2005, n. 262”, ha poi confermato i principi contenuti nella legge delega relativi alla gestione del Fondo (attribuita alla Consob) ed alla possibilità del medesimo di surrogarsi nei diritti dell’indennizzato, alla legittimazione della Consob ad agire in giudizio in sua vece nonché alle modalità di finanziamento del Fondo stesso (art. 8, D. Lgs. 179/2007).

Il decreto ha inoltre provveduto a individuare i soggetti beneficiari dell’intervento del Fondo: gli investitori diversi dai clienti professionali di cui all’articolo 6, commi 2-quinquiese 2-sexies, T.U.F. (art. 1, lett. a), D. Lgs. 179/2007).

Alla Consob è stato affidato il compito di: definire i criteri di determinazione dell’indennizzo, fissandone anche la misura massima (al netto delle somme percepite dal soggetto danneggiato a titolo di risarcimento del danno per la medesima violazione ovvero dell’indennizzo cui l’intermediario è stato condannato a seguito della procedura arbitrale semplificata); disciplinare le modalità e le condizioni di accesso al Fondo nonché emanare le ulteriori disposizioni per l’attuazione del Fondo medesimo (art. 9, co. 1, D. Lgs. 179/2007).

Venendo ad oggi, con il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129 (con cui è stata data attuazione, in Italia, alla ben nota Direttiva MiFID II, Direttiva 2014/65/UE), il legislatore ha abrogato il D. Lgs. 179/2007 – di attuazione dell’art. 27, D. Lgs. 262/2005 per il quale è stato previsto il mantenimento sino alla data di applicazione delle nuove disposizioni – ed introdotto nel T.U.F. gli artt. 32-tere 32-ter.1 che disciplinano – rispettivamente – la risoluzione stragiudiziale delle controverse e il Fondo per la tutela stragiudiziale dei risparmiatori e degli investitori.

Come rappresentato da illustri commentatori, tale modifica è stata favorita dal recepimento dell’art. 75 della direttiva MiFID II (Direttiva 2014/65/UE) che prevede l’obbligo, per le imprese di investimento, di adottare procedure efficaci ed effettive per la risoluzione stragiudiziale delle controversie anche transfrontaliere aventi ad oggetto la prestazione di servizi di investimento[17].

In particolare, il nuovo articolo 32-ter.1 T.U.F. prevede che il Fondo rientri nel bilancio della Consob. Ciò al fine di semplificare l’accesso dei risparmiatori e degli investitori alle procedure di risoluzione stragiudiziale delle controversie di cui dal nuovo articolo 32-ter T.U.F.

La disposizione mira infatti a garantire che, nei limiti della capienza, l’accesso dei risparmiatori e degli investitori diversi dai quelli professionali alle procedure sia gratuita, esonerandoli quindi dal versamento delle relative spese amministrative.

4. Considerazioni conclusive. Il “futuribile” dei Fondi.

Giova infine dar conto di un ulteriore istituto che è all’attenzione delle cronache di questi giorni. Si tratta del Fondo per la gestione dei depositi dormienti, per il tramite del quale – nei termini che appresso si diranno – si era da più parti ipotizzato di indennizzare i risparmiatori che, investendo sul mercato finanziario, sono rimasti vittime di crisi finanziarie e che hanno sofferto un danno ingiusto non altrimenti risarcito. Istituito con L. 23 dicembre 2005, n. 266 ed inserito nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, il Fondo in parola è alimentato dagli importi provenienti dai conti correnti e dai rapporti bancari, definiti “dormienti” all’interno del sistema bancario, assicurativo e finanziario (art.1, comma 345, Legge finanziaria 2006), nonché dagli importi degli assegni circolari non incassati, delle polizze vite prescritte e dei buoni fruttiferi postali non riscossi (art.1, commi 345-ter, 345-quater 345-quinquies, Legge finanziaria 2006)[18]. Il D.P.R. 22 giugno 2007, n. 116, ne ha dettato il Regolamento di attuazione, individuando i rapporti contrattuali che rientrano nella definizione di deposito dormiente e varando le regol